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Mattarella e il rapporto Pelican

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The Pelican Brief è un legal thriller scritto nel 1992 da John Grisham, di cui è stata fatta una discreta trasposizione cinematografica nel 1993. La protagonista, interpretata da Julia Roberts, è una laureanda in giurisprudenza che si trova a svolgere una vera e propria inchiesta giornalistica per spiegare all’opinione pubblica americana il perché dell’assassinio, in breve tempo, di ben due giudici della Corte Suprema statunitense.

A parte la trama che merita una lettura (o quantomeno una visione della pellicola), il richiamo a quella vicenda mi è utile per fare una riflessione in merito alla recente elezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica. Sergio Mattarella è un vecchio arnese della prima repubblica, democristiano di sinistra, noto ai più esclusivamente per avere avuto un fratello assassinato da Cosa Nostra e per essersi dimesso dall’ultimo governo Andreotti in segno di protesta contro l’approvazione della legge Mammì, una delle prime leggi ad personam avente per beneficiario Berlusconi. Se avere nel proprio albero genealogico un morto ammazzato per mafia è una caratteristica che accomuna migliaia di persone in Italia, l’atto di dimissioni, specie se dettato da valori ideali, è un gesto estremamente raro. Certo, nessuna delle due cose, in sé, può essere letta univocamente come una garanzia sull’attenzione alla lotta alla mafia e al rispetto delle regole che potrebbero caratterizzare questo settennato; tuttavia, date le poche informazioni e affermazioni pubbliche della persona, quantomeno sono indizi che lasciano ben sperare.

Sergio Mattarella, prima di essere chiamato al ruolo apicale nelle istituzioni della Repubblica italiana, ricopriva la carica di giudice costituzionale, dalla quale si è “dimesso” appena ieri, per incompatibilità. Lo status di giudice della Corte costituzionale è infatti uno dei più delicati e garantiti, ha una durata di ben nove anni (il massimo nel nostro ordinamento costituzionale) e prevede una incompatibilità pressoché assoluta con ogni altro incarico, ufficio o funzione, anche privata. La normativa prevede, tra le altre cose, che un giudice costituzionale non possa “svolgere attività inerente ad una associazione o partito politico“: nel rispetto della libertà di espressione, la disposizione vuole evitare che il membro della Corte possa servirsi dell’esposizione della carica per aspirare ad altrettanto importanti ruoli futuri.

Sotto questo profilo, la chiamata di un giudice costituzionale a Presidente della Repubblica è un precedente pericoloso, che mai si era concretizzato. Potrebbe essere visto come un’apertura verso una maggiore politicizzazione di un ruolo per sua natura sospeso tra tecnica e politica, come trampolino di lancio verso la più alta carica dello Stato. Questo non è chiaramente il caso di una persona riservata come Sergio Mattarella, ma la storia ci ha consegnato numerosi chiacchieroni ed è indubbio che questo precedente, per quanto sia attenuato dalla personalità del singolo, è pur sempre un precedente.

Detto questo, cosa c’entra il rapporto Pelican con Mattarella? Con la sua elezione e conseguente dimissione da giudice costituzionale gli scranni vacanti in seno alla Consulta tornano a essere due. La prof.ssa Sciarra è stata eletta lo scorso novembre dal parlamento grazie ai voti dei pentastellati, in rottura del patto del Nazareno, che hanno scongiurato l’elezione di una persona sgradevole – perfetta rappresentazione del patto – quale Luciano Violante. Tuttavia, siccome Mattarella era di nomina parlamentare, entrambe le nomine spettano a questo parlamento. Veniamo al punto della questione: personalmente sono tra coloro che ritengono le vicende prodromiche alla candidatura di Mattarella pura finzione da vendere all’opinione pubblica (e a tanta parte della classe politica, minoranza PD e centrodestra di governo in primis). L’accordo tra Matteo Renzi e il pregiudicato B. già era nel cassetto, quando sono stati fatti circolare delle candidature impresentabili giusto per poter accogliere quella di Mattarella tra gli applausi dei delegati PD e ricompattare il partito; quindi poter fare una subdola melina per giustificare davanti all’opinione pubblica il fatto che, secondo una pratica da analfabeti costituzionali, si gettassero nel cesso le prime tre votazioni per eleggere il futuro presidente con il quorum ridotto previsto per il quarto scrutinio, quello che è risultato decisivo. Quanto ottenuto è stata una blindatura del governo, rivenduta dall’informazione totale come l’ennesimo successo personale di uno spregiudicato Renzi.

E se così non fosse?

Se il patto del Nazareno fosse più vivo che mai, e comprendesse l’accordo sulla nomina di due nuovi giudici graditi o quantomeno non invisi (vedi Giuliano Amato e Luciano Violante) a Silvio Berlusconi? Tengo a ricordare che al tempo della dichiarazione di illegittimità costituzionale del celebre Lodo Alfano, nel 2009, la decisione passò con nove voti favorevoli e sei contrari. Di quei sei, senz’altro due erano i giudici Paolo Maria Napolitano e Luigi Mazzella, che prima della pronuncia erano stati pizzicati a cena proprio con gli interessati, Alfano e Berlusconi, e chiaramente non avevano avvertito la necessità di dimettersi. Adesso la composizione della Corte è cambiata, di quel consesso che abrogò il secondo lodo ad personam rimangono in carica solo quattro giudici, tra cui quel Napolitano. Ma è possibile che Silvio Berlusconi stia nuovamente tentando di influenzare la Corte costituzionale, e cosa potrebbe spingerlo a ciò?

La legge Severino è stata rimessa alla censura della Corte costituzionale dal TAR che ha sospeso la decadenza per il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, e la nuova Corte nei prossimi mesi dovrà affrontare la questione. Il giudice amministrativo ha sollevato questione di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 10 e 11, relativi alla incandidabilità negli enti locali, dunque una eventuale pronuncia di illegittimità non avrebbe ripercussioni sulla situazione di B. Questo però sulla carta, perché a quel punto non si capirebbe per qual motivo l’incandidabilità dovrebbe applicarsi ai rappresentanti di parlamento e regioni e non anche a consiglieri comunali e provinciali: potrebbe scorgersi una ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento, che consentirebbe alla Corte di ricorrere alla illegittimità consequenziale di cui all’art. 27 della legge 87/1953 sul funzionamento della Corte – che permette di dichiarare l’illegittimità derivata dalla decisione principale. Dunque la Corte potrebbe dichiarare illegittima la Severino già nei prossimi mesi, anche con riflesso su B.; ovvero, successivamente, qualora la questione tornasse al suo cospetto con riferimento all’incandidabilità di deputati e senatori.

In ogni caso, a Berlusconi potrebbe far senz’altro comodo avere un appoggio in alto, e se il Quirinale è stato solo sfiorato (parrebbe), Palazzo della Consulta dista appena pochi metri. Vedremo nei prossimi giorni, dalle prime firme del nuovo Presidente della Repubblica e dall’atteggiamento della stampa e delle televisioni – fino a questo momento servile –, se il patto del Nazareno è ancora in ottima salute.