Nel nome di Silvio

Di queste settimane resterà, oggi pare, la fictio magistralis dell’eterno Silvio Berlusconi: farsi credere vivo quando in verità è bell’e che morto, politicamente e anagraficamente. Non si può andare al Quirinale ad 85 anni suonati, per un mandato che la Costituzione vuole di durata settennale. Il candidato non può essere ultra ottuagenario: tra i più anziani a salire al Colle, Sandro Pertini venne eletto che ne aveva 81, Giorgio Napolitano 80; entrambi poterono sopravvivere alla carica, addirittura il secondo se ne concesse due (inaugurando altrettante pericolose variazioni sul tema, assai censurate in dottrina: la rielezione e, soprattutto, la scadenza anticipata e concordata di una carica che la Costituzione prescrive tra le più longeve). Ma pur volendo tacere, per buona educazione, sui limiti biologici del candidato, va pure detto senza girarci troppo intorno che anche la parabola politica di Berlusconi è al termine, in piena fase calante, e già in molti tra i suoi hanno fiutato l’aria stantia e sono passati a migliore aspettativa.

Queste sono, invero, le due ragioni minori che ostano alla eleggibilità di Silvio Berlusconi a Presidente della Repubblica. La principale, grande come un macigno, riguarda piuttosto il suo cursus honorum, la sua spregiudicata carriera di imprenditore contiguo a Cosa Nostra prima e l’epopea del berlusconismo di governo sostenuto dal conflitto d’interessi e dalle leggi ad personam poi. Potrebbe avere trent’anni di meno – così Francesco Cossiga, 56enne al momento dell’elezione – come potrebbe non necessitare di un solido partito che lo sostenga, in vista di un consenso trasversale – l’esempio è il compianto Carlo Azeglio Ciampi; il problema di Berlusconi rimarrebbe comunque quella “condotta incensurabile”, primo requisito per ogni cittadino che voglia partecipare ad un concorso pubblico, di cui egli è grossomodo carente per via, se non altro, della condanna per frode fiscale riportata nel 2013. Frode che, per inciso, fu ingente ed avvenne ai danni dello Stato.

Appare dunque sorprendente che l’unico commento speso dalle forze progressiste per fermare il chiacchiericcio scomposto sulla sua candidatura attenga al suo essere “divisivo”. Nient’altro che una valutazione politica, quasi fosse un nome qualsiasi nel mazzo dei regi del centrodestra.

Confido che, quando finalmente a Montecitorio si apriranno le urne elettorali, Giuseppe Conte possa stupirci. Dico Giuseppe Conte perché lo reputo un Enrico Letta con meno correnti interne e più disperazione sulle spalle: il rischio di finire disarcionato dal Movimento è alto, ma non vi sono ulteriori opportunità politiche per lui. E poi perché, prospettive personali a parte, egli guida la prima forza politica del Parlamento, capace di esprimere circa 236 voti per l’elezione del futuro Capo dello Stato. Spetta a lui indicare un nome, secondo prassi – del resto, perché mai dovrebbe farlo il centrodestra, che esiste unito soltanto come comitato elettorale? – e ci si aspetta che lo indichi per mettere all’angolo quei due Matteo, che tanto lo hanno fatto dannare durante la sua esperienza a Palazzo Chigi, aprendogli sotto al naso una crisi di governo ciascuno. Ma a prescindere dai calcoli politici contingenti, ripeto, è il Movimento 5 Stelle a poter provare ad impostare il gioco, obiettivo che si vanifica all’aumentare del numero di malcontenti intestini. Conte potrebbe riuscire soltanto ove esprimesse un nome di specchiata onestà umana e raffinata competenza politica – quest’ultima è requisito imprescindibile per chi ha il potere di sciogliere le Camere e di nominare i Governi, la prima invece è attitudine che preme perlopiù al popolo grillino – dall’ovvio ascendente sul centrosinistra, ma con qualche gradimento anche dall’altra parte dell’emiciclo.

Veniamo dunque ai nomi.

Il primo è Pietro Grasso: 76 anni, già Presidente del Senato e finanche Presidente supplente della Repubblica nell’interregno successivo alle tanto attese dimissioni di Re Giorgio Napolitano. Venne preferito alla guida della camera alta ad un dimenticabile Renato Schifani, attirando i voti decisivi del Movimento già in epoche non sospette (2013), quando il suo partito di allora, il PD, era per i grillini indistinguibile dal PDL: al Senato, peraltro, ha lasciato il segno, promuovendone la riforma del regolamento. La carriera politica, invero recente, è a sinistra, tanto da abbandonare il partito, prono a Matteo Renzi, quando viene approvata l’ennesima legge elettorale truffaldina, per seguire D’Alema e Bersani e diventarne la bandiera alle elezioni politiche del 2018. Ma quel che lo ha impegnato tutta una vita è la Magistratura: da P.M. ha esercitato l’azione penale contro Cosa nostra, tanto e bene da venir nominato a capo della Procura nazionale antimafia. In quest’ultimo incarico è racchiusa la trasversalità di Grasso: fu l’allora Governo Berlusconi III a far carte false (letteralmente) per fargli avere la guida della Procura più importante d’Italia, preferendolo ad un assai più radicale Gian Carlo Caselli. E ciò per via di una sua caratteristica, che a seconda della lente può apparire peccato o virtù: ha sempre evitato, per quel che ha potuto, di alzare il tiro delle indagini dalla mera criminalità mafiosa fino ai rapporti oscuri che la collegano alla politica, siciliana e nazionale. Un caso emblematico: nel 2000, da Procuratore capo di Palermo, si rifiutò di firmare l’atto di appello della Procura da lui guidata contro l’assoluzione in primo grado di Giulio Andreotti (per la cronaca: nel processo di appello venne accertata – e poi confermata in Cassazione – la contiguità di Andreotti con Cosa nostra almeno fino alla primavera del 1980, cioè per un tempo ormai prescritto). È insomma, per meriti e demeriti, un candidato che potrebbe raccogliere la c.d. maggioranza Ursula, a maggior ragione se si considera che è cattolico praticante (e si sa che nell’urna Dio ti vede).

La seconda è Emma Bonino, ma sarebbe la prima: la prima donna a ricoprire la più alta carica della Repubblica, a 73 anni. E la potrebbe ben portare per indubbia competenza politica, maturata lungo una militanza radicale e liberale che l’hanno resa un’icona anche oltre il Parlamento italiano: ha guidato dicasteri di proiezione internazionale, in ultimo il Ministero degli affari esteri durante il Governo Letta (2013), ma in precedenza era già stata commissaria europea (1995), su nomina del primo Governo Berlusconi. L’appoggio della Lista Pannella all’allora Cavaliere rampante (1994) le consentì di ottenere il prestigioso incarico alla Commissione europea, dal quale conseguì una visibilità ed un apprezzamento tali da suscitare, nel 1999, un diffuso desiderio di vederla già al Quirinale, quale successore di Oscar Luigi Scalfaro. Da allora non ha mai cessato di godere di un consenso trasversale, grazie anche alle sue posizioni politiche ed economiche che le permettono di attirare simpatie in ambienti assai distanti: femminista di spicco, inflessibile sui diritti civili, liberale e liberista. Si è schierata a favore dell’intervento militare in Kosovo ed è un sicuro punto di riferimento per gli Stati Uniti e la NATO, in quanto di indubbia fede atlantista. Insomma è la candidata ideale poiché, pur racchiudendo in sé spinte radicali, finisce col bilanciare il tutto nel complesso, secondo l’adagio toscano del “poggio e buca fa pari”. La sua fede laica non la rende invisa a Papa Francesco, che l’ha più volte elogiata e sostenuta in passato; ai parlamentari cattolici, chissà.

In conclusione, questi i miei due nomi. Entrambi portano il segno di Silvio Berlusconi, com’è inevitabile per chi è salito sul palcoscenico d’Italia negli ultimi trent’anni; entrambi rappresentano la negazione della sua potenziale elezione al Quirinale, ove egli si determinasse a dare il suo assenso, una volta ancora. Ma se donna deve essere – e sarebbe anche l’ora, per Dio! – che si guardi alla competenza, sgomberando il campo dalle tante figurine attaccate nell’albo femminile dai soliti, svogliati, giornalisti uomini.

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